Il centrodestra ha bisogno
della forza propulsiva di una destra identitaria, popolare, nazionale. Ma è
soprattutto l’Italia ad aver bisogno di un partito della nazione capace di
«interpretare in forme moderne e consapevoli gli interessi permanenti del nostro
popolo e i valori profondi della nostra identità», un partito che «abbia la sua
spina dorsale in un blocco sociale formato dal ceto medio e da vasti strati
popolari». È questo il messaggio che Gianni Alemanno affida a un libro che si
intitola proprio Il Partito della Nazione (I Libri del Borghese, pp.121 euro 15.
Alemanno ripercorre analiticamente le svolte di un ventennio non senza aver
prima confessato i sentimenti emersi nei duri anni vissuti come sindaco di
Roma, nella consapevolezza di aver lasciato la città «in condizioni molto
migliori di come l’avevo trovata».
L’analisi
parte dal 1993, anno dell’impetuoso processo che portò la destra ad affermarsi
come inedita forza di massa della politica italiana. L’autore si chiede come fu
possibile che la destra stessa si «lasciò strappare dalle mani il timone del
cambiamento dalla nascente Forza Italia di Silvio Berlusconi». La risposta è
che An si appoggiò alle «espressioni alquanto logorate del conservatorismo
liberale, del moderatismo post-democristiano e del perbenismo qualunquista». Si
sarebbe invece dovuto, a opinione di Alemanno, percorrere la «strada maestra di
valorizzare la cultura nazionalpopolare, comunitaria e partecipativa che
proveniva proprio dalle radici migliori della destra italiana». Quanto alla
«fusione a freddo» tra An e FI e alla nascita del Pdl, Alemanno rileva che la
realtà è stata opposta al «sogno di una destra forte e organizzata, capace di
egemonizzare il partito unico del centrodestra». L’area politica proveniente di
An è stata «progressivamente risucchiata e resa subalterna agli uomini di Forza
Italia».